di Antonio Medici
“Che cos’è il Cinema del reale?” è il titolo dell’intervento
di Antonio Medici con cui dieci anni fa ci interrogavamo
sulla natura del nostro fare. Lo riproponiamo convinti della sua attualità
La domanda non sembri oziosa o retorica: non so bene che cosa sia il cinema del reale. Perché non chiamarlo documentario? A prima vista, l’uno e l’altro sembrano la stessa cosa. E, infatti, di solito i due termini sono intesi come fossero sinonimi. Si interpreta la specificazione che segue alla parola “cinema” come un restringimento del suo campo d’azione al circondario della realtà. Ma così non si corre il rischio di accentuare il fraintendimento che da sempre affligge il documentario, la sua presunta oggettività, virtù della prevalenza dell’attitudine riproduttiva su quella creativa?
E invece, ciò che è più interessante nel documentario è la sua costitutiva problematicità, il suo trovarsi in ogni caso di fronte, soprattutto quando persegua l’indagine della realtà, alla natura ambivalente delle immagini in movimento che sono insieme calco e rappresentazione del mondo, cioè segni.
Ugualmente, più che sul contenuto (del resto, quale cinema non ci parla direttamente o indirettamente della realtà umana?), è sul linguaggio stesso che la realtà preme nel cinema del reale. Voglio dire che è forse più interessante intendere, nella specificazione, il riferimento a una tensione essenziale tra segno audiovisivo e realtà, da contrapporre, evidentemente, a un cinema che non è affatto interessato a questo. Il confine, dunque, non passa più tra documentario e finzione, ma li attraversa entrambi.
Edgar Morin dice che «Il y a deux façons de concevoir le cinéma du réel. La première est de prétendre donner à voir le réel. La seconde est de se poser le problème du réel»1. E prosegue sostenendo che il cinema di finzione è paradossalmente meno illusorio del cinema documentario. L’uno dichiara apertamente la propria natura d’invenzione; l’altro, al contrario, camuffa la sua finzione e il suo immaginario... «Or, nous devons le savoir de plus en plus profondément, la réalité sociale se cache et se met en scène d’elle-même, devant le regard d’autrui et surtout devant la caméra»2.
Sulle immagini prodotte dal dispositivo cinematografico (e prima ancora fotografico) pesava in origine il pregiudizio – sconfessato dai film e dalle riflessioni teoriche – che in esse c’era troppa realtà, effetto del meccanismo, per permettere alla fantasia di volare. Da troppa è divenuta troppo poca: il prevalere del film di finzione come la più popolare e la più artistica delle forme del cinema, almeno nel Novecento, ha per lo più spostato il «problema della realtà» dal piano del linguaggio a quello dello stile e della forma (naturalismo, realismo, anti-realismo, etc.). Nella stessa pratica documentaria, spesso è accaduto e tuttora accade che le immagini abbiano la modesta funzione di illustrare un commento parlato, piuttosto che lavorare ai fianchi l’opacità del mondo.
Fare cinema del reale dovrebbe impegnare, allora, non solo l’interesse per la realtà intesa nel senso più ampio, ma anche richiedere, al di là della difficile distinzione di genere tra ciò che appartiene alla finzione narrativa e ciò che non vi appartiene, una tensione esplorativa che investa lo stesso linguaggio utilizzato. Questa stessa consapevolezza e sperimentazione dei mezzi linguistici non è ciò che caratterizza, in fondo, il cinema moderno? Del resto, “cinéma de la réalité” fu uno degli attributi ricorrenti nei dibattiti francesi per indicare quelle esperienze che tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta cominciarono a cambiare il modo di far cinema in tutto il mondo3.
Ora, il confronto del cineasta e del videoasta con il linguaggio – potente marchingegno carico di ideologia – è evidentemente una sollecitudine etica, estetica, di stile… Aggiungerei che tale preoccupazione è ancora più urgente oggi: di fronte alla moltiplicazione esponenziale dei produttori di segni audiovisivi tra i quali primeggia la televisione; di fronte all’incessante costruzione di simulacri della realtà; di fronte al movimento dall’analogico al digitale che apre una fase di nuove pratiche e nuovi problemi teorici.
I nomi contano. Il “cinema del reale” potrebbe essere anche il termine positivo del superamento di vecchi modi di pensare: quello che considera il documentario come il fratello minore del film di finzione o lo indica per negazione (non fiction, ovvero ciò che non è cinema tout court); quello che propone rigide griglie di classificazione del discorso audiovisivo, mentre le pratiche contaminano forme, linguaggi e generi nel rappresentare e interpretare la realtà; quello, infine, che idealizza i supporti (il cinema si fa in pellicola!) quando proprio la loro pluralità offre inedite ed efficaci soluzioni espressive.
La problematicità aperta e non occultata (se non nelle posizioni più ingenue, più dogmatiche) del “cinema del reale” mi sembra la sua forza, la sua ricchezza, ciò che lo rende oggi più che mai interessante, curioso, spericolato: un cinema che si pone «Les plus graves et les plus difficiles problèmes par rapport à l’illusion, l’irréalité, la fiction, […] celui de la nature du réel»4.
1) «Ci sono due modi di concepire il cinema del reale. Il primo è di pretendere di dare a vedere il reale. Il secondo è di porsi il problema del reale», Edgar Morin, presentazione del “Cinéma du Réel à Beaubourg”, 1980 (non pubblicata).
2) «Ora, dobbiamo saperlo sempre più profondamente, la realtà sociale si trucca e si mette in scena essa stessa, davanti allo sguardo altrui e soprattutto davanti alla camera», ibidem.
3) La Nouvelle Vague, il Free Cinema, il Cinema Novo, il New American Cinema, etc. Cfr. Giorgio De Vincenti, I “Cahiers du cinéma”, il nuovo cinema e la “modernità”, in Il nuovo cinema ieri e oggi, a cura di Giovanni Spagnoletti e Giorgio De Vincenti, XXXVII Mostra internazionale del nuovo cinema, Pesaro, 22-30 giugno 2001.
4) «il più grave e difficile problema in rapporto all’illusione, l’irrealtà, la finzione, […] cioè il problema della natura del reale», Edgar Morin, citato.