di Valeria Raho
Non c’è reale se non c’è visione. Non basta infatti puntare un paio di lenti nitide per poter dire di avere la verità in tasca. Realtà e visione devono essere, piuttosto, ricercate nelle contaminazioni, nella molteplicità dei punti di vista, nella soggettività che provoca spaesamenti, nella polverizzazione del partito unico dell’immagine, quel regno popolato da comunicazioni visive rapide, istantanee, catatoniche, tutte slogan e torpore per le retine, da cui dovremmo svegliarci prima o poi.
Per Big Sur e OfficinaVisioni il concetto è stato chiaro sin dall’inizio. Come un nord magnetico, ne ha guidato le scelte ai primi passi. Non senza rischi, perché è facile esporsi quando porti a ballare il cinema con le parole, il design con la musica, la grafica con i linguaggi dell’arte contemporanea. Alle prime quasi in sordina, poi con maggiore convinzione, lo sconfinamento si è trasformato nel vero filo conduttore della Festa di Cinema del reale che, rispetto la centralità della programmazione cinematografica, non si è mai preclusa la possibilità di mettere in dialogo nomi, cose e città, per parafrasare il gioco. Così, ad esempio, nasce l’idea di un non-premio in un festival in cui non esiste competizione: non una statuetta, una targa densa di scritte da annegare in un cassetto, bensì una lampada da accendere come un ricordo, un eureka. Non un oggetto di design deciso a tavolino, ma un simbolo realizzato ad hoc da Renzo Buttazzo prima, oggi da Gianfranco Conte per Artego, frutto di incontri e intese sul significato intrinseco del segno.
Sempre nella filigrana dell’incontro andrebbero rilette le esperienze dei workshop, dei seminari e delle singole mostre. Fotografia, videoinstallazioni, mostre di design e scultura, pittura, interventi urbani, fumetto: i media e le tematiche sono molteplici al pari dei nomi e titoli che si intrecciano creando una trama fittissima di relazioni. Edizione dopo edizione, ognuna di queste esperienze ha contribuito nel dare forza e respiro ad un progetto che, non vivendo di solo cinema, ha fatto di curiosità virtù. Da “Mostre ed eventi” sino alle sezioni “Sguardi e visioni” ed “Extra/inContemporanea”: le diciture in catalogo la dicono lunga sull’evoluzione (anche concettuale) che ha portato un festival dedicato al cinema documentario ad abbracciare esperienze altre, diverse dalla pellicola, riconoscendo in loro la capacità di arricchirne il dibattito e cercando, al tempo stesso, di entrare in stretto contatto coi luoghi. In quest’ottica andrebbero letti, ad esempio, i lavori site specific del collettivo Starter; “Merìca e le visioni”, la retrospettiva dedicata a Norman Mommens; “Luminaria Essay” di Flavio Favelli a cura di Marina Forni o le più recenti “Taranto rooms”, il primo concept espositivo prodotto e curato da Big Sur Lab e DamageGood. Nato a sua volta da un progetto filmico, “Taranto rooms” rappresenta un ulteriore passo nel cammino del festival. Nelle stanze di Castello Risolo si fanno largo videoart, soundscape, live performance ed installazioni fotografiche non come interventi singoli proposti da singoli artisti, ma elaborati in un concept unico, da cui ne scaturisce una commistione di linguaggi creoli. Realtà e visione si fondono ancora una volta al di là dello schermo, allenano ora all’empatia ora alla distanza, talvolta respingono altre accolgono, ma ad ogni modo predispongono all’ascolto. Le carte in tavola cambiano, ma per Big Sur la sostanza resta.