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L'essere, l'apparire e l'illusione del sogno

21 luglio 2013

L'essere, l'apparire e l'illusione del sogno

di Paolo Pisanelli


INTERVISTA A MATTEO GARRONE

 

Quale legame trovi ci sia tra cinema del reale e cinema di finzione?

Posso dire che per me non è importante la realtà, ma è la verità. Considerando questo, tra il cinema del reale e il cinema di finzione non trovo ci sia diversità. La cosa più importante, quando decido di raccontare una storia, è quella di cercare di capire attraverso i luoghi, attraverso la realtà che interrogo, come fare a interpretarla senza cadere nella trappola dell’imitazione del reale. Trovata la chiave tutto diviene semplice. 

È accaduto un po’ in tutti i miei lavori, all’inizio, nei primi film, avveniva in maniera più inconsapevole, poi, mano a mano che sono andato avanti, ho preso più consapevolezza e ogni volta la cosa più difficile è stata quella di trasfigurare la realtà portandola in un’altra dimensione, quella dell’arte.

 

Quanto è importante a livello narrativo essere presenti alla macchina da presa?

Stare in macchina è estremamente importante. Il mio modo di girare è assolutamente emotivo, un continuo confronto tra idee e “momenti”. Cerco di trovare attimi irripetibili, quelli spesso legati ai gesti che gli attori fanno in maniera inconsapevole. Stare alla macchina da presa, mi fa vivere con loro la scena, siamo insieme in una specie di danza e io posso cogliere i dettagli, la particolarità di un “attimo”, un’espressività più forte delle battute scritte in sceneggiatura o dei movimenti che avevamo pensato prima in fase di story board. Questo poter cogliere “momenti” è il motivo che mi spinge ad essere presente in macchina. Devo poi sottolineare che ho lavorato, sin dai miei inizi, con Marco Onorato, un direttore della fotografia che è anche un grandissimo operatore. Marco, stando al monitor mi ha sempre aiutato a capire, ogni scena si è fatta dialogo fra noi… e così, in qualche modo in macchina siamo stati sempre in due. 

 

Sei a Specchia con il tuo ultimo film. Cos’è “Reality”?

Reality è un film a cui sono molto legato e che è stato purtroppo vittima di parecchi fraintendimenti e pregiudizi: si pensava trattasse dei  reality e in particolar modo del Grande Fratello ma in realtà, chi vedrà il film si accorgerà che il Grande Fratello, non è assolutamente importante, è semplicemente un fondale, una sorta di Mc Guffin, come diceva Hitchcock, un paradiso artificiale lontano. Il film affronta altri argomenti, temi legati al sogno e all’illusione, all’essere e all’apparire, alla perdita di identità, un film che fin dall’apertura cerca di trovare un equilibrio tra realtà e dimensione fantastica. 

Il protagonista Aniello Arena, è un attore di grande talento, al suo esordio nel cinema, viene dal teatro. Ha lavorato con Armando Punzo, nella Compagnia della Fortezza, un gruppo straordinario che da 25 anni, nel carcere di massima sicurezza di Volterra, fa teatro con i detenuti. Il fatto che Aniello fosse recluso da oltre vent’anni ha dato una forza straordinaria alla sua interpretazione, evidente nello sguardo, negli occhi che traducono lo stupore e la sorpresa per il mondo che Aniello scopriva durante il suo viaggio in Reality. Tutti gli altri attori che hanno lavorato nel film sono di formazione teatrale classica o cabarettistica, come Loredana Simioli impegnata nel circuito delle televisioni napoletane. 

 

Tra reale e fantastico, come hai realizzato quest’intreccio?

L’idea favolistica che anima il film è dichiarata sin dalla prima sequenza con la carrozza che arriva al matrimonio. Una delle cose più difficili nella realizzazione del film è stato il dover trovare il giusto equilibrio tra realismo e dimensione fantastica. Anche i luoghi dovevano essere credibili rispetto al personaggio che raccontavamo, però al tempo stesso gli abbiamo portarti anche in un‘altra dimensione, faccio un esempio: la casa dove loro vivono, dove dormono è una villa settecentesca, un luogo straordinario, sospeso tra le fantasticherie della vecchia vita e la presenza della nuova, del popolo che la abita. La piazza è stata ricostruita totalmente dallo scenografo Paolo Bonfini e anche lì volevamo raccontare come ci fossero dei mondi paralleli, dei contrasti tra il mondo perduto della tradizione cinematografica  - che per me era un anche  un riferimento a certi di film di De Sica specie quelli tratti da Eduardo, come “Matrimonio all’italiana” - e il tempo presente dei non luoghi: l’outlet, l’acqua park, i centri commerciali, dei posti evocativi  dei set da reality show, come se i personaggi fossero immersi già in una sorta di reality. È un film che lavora sui contrasti visivi che cerca di fare un viaggio attraverso un Paese in cambiamento e cerca di raccontare tante realtà.

 

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